Il Barone Rampante

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I fatti fin qui narrati sono il frutto dell’innegabile fantasia di mio fratello Biagio che, costretto a stare a letto tutto il giorno a causa della poliomelite, trovava giovamento leggendo e scrivendo storie sui personaggi della nostra famiglia: l’ispirazione gli derivava anche dal mio spirito ribelle, dalle mie rivolte giovanili motivate più dall’istinto che dalla razionalità e, soprattutto, dalla mia idea rivoluzionaria di vivere sugli alberi per guardare bene la terra, tenendomi alla distanza necessaria.

La mia “vita rampante” durò solo una settimana. Ci pensò nostra sorella Battista a porre fine al mio intento di trascorrere la mia vita sull’elce, come un uccello. Era la sera del dieci agosto e ricordo che Battista, con lo schioppo sotto il braccio, si aggirava per la casa per procacciarsi leccornie da propinarci a pranzo. Stavo osservando con curiosità la sua caccia quando, improvvisamente, un colpo di schioppo ruppe il silenzio notturno. Sobbalzai per lo spavento. E subito le lacrime annebbiarono la mia vista. Tremavo come un fuscello al vento. Rischiai persino di cadere.
Quella notte, però, non fu l’ennesima lumaca ribelle a rimanere spiaccicata contro il soffitto della cantina bensì la piccola testa di nostra sorella.
Avvinto dal rimorso per non essere intervenuto a impedire il suo folle gesto, decisi di abbandonare i miei propositi di vivere per sempre alla macchia e, nel giro di una sola notte, diventai un uomo maturo: la mia solitudine e la morte di Battista mi hanno insegnato che l’azione è un elemento indispensabile per la difesa delle proprie idee. Dopo questo luttuoso dramma familiare, nostra madre si ammalò gravemente e di lì a poco perì. Nostro padre, invece, impegnato come sempre nella conta e riconta dei suoi feudi, si rifugiò in una bonaria pazzia, finendo i suoi giorni tra le mura di casa.
Contro ogni aspettativa, Biagio iniziò finalmente a camminare: percorreva la sua stanza con il sostegno di due stampelle, mentre per gli spostamenti più lunghi all’interno della nostra dimora utilizzava una sedia dotata di rotelle. Ridimensionò i suoi confini e la finestra della sua stanza, che incorniciava un pezzo di cielo e un quarto della chioma fronzuta dell’elce, fu sostituita da quelle della sala da pranzo che offrivano una visuale più ampia e un orizzonte più netto: i campi coltivati a frumento da un lato, i vigneti dall’altro; aiuole e roseti sparsi tutt’intorno con armonia ed eleganza; un doppio filare parallelo di alti pioppi a delimitare la strada acciottolata che dall’ingresso della villa portava sulla strada di collegamento con la Riviera ligure di ponente; infine la linea immaginaria che divide il cielo dalla terra.
La sala da pranzo, trasformata ormai in una biblioteca, fu presto colma di libri, enciclopedie, almanacchi, pile di fogli fitti di appunti, racconti e bozze di romanzi, tra cui “Il visconte dimezzato” e “Il cavaliere inesistente”. A poco a poco la passione per i viaggi ebbe il sopravvento sulla lettura. Durante uno dei suoi tanti viaggi, accompagnato sempre da due fidati e premurosi aiutanti, pronti a sostenerlo fisicamente e a portarlo in spalla quando i percorsi si presentavano accidentati e impraticabili con la sedia mobile, mio fratello scoprì anche l’amore.
Rapito dalla subitanea e bruciante passione per Ripalta d’Ofanto, Biagio non fece più ritorno a Ombrosa e si limitò a scrivere due righe di ringraziamento a Viola, per averlo trattato come un fratello, e a me, per i soldi imprestati. I due si sposarono in gran segreto, ebbero tre figli maschi e andarono a vivere nel castello che nostro padre aveva fatto restaurare con il proposito di trascorrere dei lunghi periodi di riposo, lontani dal trambusto degli affari e dalle incombenze quotidiane.
Io, Cosimo Piovasco di Rondò, abbracciai la carriera militare con un duplice scopo: onorare la mia terra con l’intento di risvegliare la coscienza dell’umanità individuale di un intero popolo e riguadagnare il senso della civiltà e dell’affrancamento dalla dominazione straniera, ricordare la tenera figura di mia madre con la certezza di aver assecondato un suo desiderio.
Biagio sosteneva che: - Ai lutti succedono presto o tardi eventi lieti, è legge della vita. – Devo ammettere che aveva proprio ragione. Due anni dopo la morte di nostra madre, infatti, sposai Violante D’Ondariva, un’amabile creatura che si è rivelata essere una donna di sani principi, moglie fedele e madre affettuosa, contrariamente a quanto narrato da  mio fratello, roso forse dal tarlo della gelosia. Dal nostro matrimonio sono nati i gemelli Calvino e Italia.
Ecco come si sono realmente svolti i nostri destini.
Giunto sin qui, ringrazio Biagio che ha reso immortale la nostra famiglia, anche se con troppe astruse fantasie, e i miei figli ai quali ho affidato il mio testamento civile e morale. Mi auguro che questi giovani possano contribuire alla realizzazione del mio grande sogno: uno Stato italiano, finalmente unito e avulso da discriminazioni di ogni genere, in cui tutti possano godere del rispetto reciproco, dal Ducato di Ombrosa al Casale della Trinità, da Capri alle Tremiti.
Sono tanti quelli che, lamentandosi, dichiarano: - Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti.
Credo sia giunto il momento di ridisegnare i contorni di questo Paese. Il nostro meraviglioso “stivale anfibio”.

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