Il Barone Rampante

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La fuga di Viola gettò mio fratello nello sconforto. Era una batosta non da poco per uno come lui, ormai vecchio e malandato. Viveva in uno stato di inquietudine. Io cercavo di aiutarlo,  ma era  riottoso, incupito, incattivito. Aveva costantemente negli occhi Viola e, soprattutto, l'attimo in cui lei gli disse "addio". Una parola sola, pronunciata con distacco e freddezza, in un modo tale che ribattere sarebbe stato impossibile anche per un avvocato ciarliero.

Pensava a Viola, e Viola diventava l'immagine di un mondo balordo,  impossibile da amare e dal quale sarebbe stato improbabile essere rispettati e considerati. Si riteneva una vittima, Cosimo.
Io provai a fargli riconsiderare il bello dell'esistenza, con scarso successo. Anzi, venni più volte mortificato e insulato. Non so se colpevolmente o meno, ma lo abbandonai a se stesso. E l'indifferenza fu perfino qualcosa di positivo, rispetto all'odio che qualcuno riservava "all'uomo degli alberi", come ormai il barone decaduto era soprannominato.
Il clima ostile fu niente, però, in confronto a quello meteorologico. Venne un inverno, che così inverno non s'era mai visto a Ombrosa.
Per giorni e giorni, il blu scuro delle onde burrascose quasi si confuse con il plumbeo del cielo, tremendo negli ululati di tuoni che sembravano sgorgare dal profondo delle caverne. Scese il freddo. E, dopo temporali fuori stagione e grandine impensabile d'inverno, piombò la neve. All'inizio, furono lievi fiocchi da far felici i bambini. Ma poi la letizia si tramutò in bufera e l'allegria divenne paura. Il gelo attanagliò l'intera regione. Una Siberia in una fetta d'Italia, abituata al clima dolce. Il popolo, scosso dagli eventi e preso alla sprovvista, cercò di opporsi alla forza della natura e alle temperature rigide con l'unica cosa che poteva fare: scaldarsi.
Cominciò un incredibile accapparramento di  legna, da mettere nella stufa a beneficio del fuoco. I più forzuti imbracciarono l'ascia. Altri si attrezzarono con seghe e lame d'ogni tipo. Vidi un esercito di improvvisati boscaioli prendere d'assalto la foresta. Mi preoccupai per Cosimo, appollaiato su chissà quale albero, e chissà quanto intirizzito per il freddo. Non stava sui rami vicino alle case, no. Se n'era andato, colmo d'odio. Già, ma dove?
Mi avvicinai al più agguerrito del gruppo e gli dissi: "Mi raccomando, mio fratello...". L'unica risposta che ottenni fu: "Non me ne importa niente", che  mi fece capire quanto Cosimo era inviso alla popolazione tutta.
Immaginando che nessuno avrebbe avuto pietà di lui, mi misi a cercarlo  per metterlo in salvo. La foresta era vasta, forse Cosimo sarebbe riuscito a trovare un riparo sufficientemente sicuro. Ma la furia del plotone che abbatteva piante era tale da lasciare ipotizzare che, in pochi giorni, il bosco sarebbe diventato un'enorme catasta se solo tronchi e rami  non fossero finiti ad alimentare le stufe. La neve imbiancava e rendeva il panorama tutto uguale.
La ricerca di mio fratello fu vana.
La furia dei tagliatori di legna si abbatté sul bosco, che si assottigliava col passare dei giorni. Era un perenne viavai di gente che ben conosceva la zona e sapeva di poter trovare legna in abbondanza. A poco a poco la foresta venne depauperata. Squadre di boscaioli tagliavano e accatastavano. Donne e bambini   portavano rami  nelle case, stipando i pezzi di varie dimensioni nelle cantine o comunque ovunque ci fosse posto sufficiente.
Tutt'attorno, era un manto di neve calpestata, con alberi sradicati e segatura svolazzante a confondersi coi fiocchi. Le mie suppliche non sortivano effetto: "Se lo troveremo morto te lo faremo sapere", mi dissero.
L'opera di disboscamento proseguì a tempo di record, ben più rapida di quanto avessi previsto. I boscaioli si diedero una scadenza: "Tagliamo tutto prima del 25 dicembre, così potremo  celebrare la festa in santa pace". I buoni propositi vennero rispettati. Quasi. Sì, quasi, perché, al culmine dell'impresa, alle 10 della mattina di Natale, solo un albero particolarmente ricco di rami era rimasto in piedi, in attesa del taglio. Me ne accorsi quasi per caso. E urlai: "Fermatevi!". In due mi guardarono stupiti, con l'ascia a mezz'aria. Un altro sbuffò, un altro ancora mi rispose: "Rassegnati, Biagio. Vai a festeggiare il Natale tranquillo".
Non feci in tempo a obiettare, che sentimmo un  fruscio. Qualche manciata di neve cadde dalle fronde. Una flebile voce chiese: "Chi c'è?".  Era lui, Cosimo! Saltellai felice come un bambino. Poi dissi: "Scendi,  che sei salvo". La risposta fu: "Non ci penso nemmeno". L'uomo al mio fianco, allora,  ordinò: "Avanti, non perdiamo altro tempo". Afferrò l'ascia con tutto il vigore a disposizione, la sollevò ma, quando fu pronto a scagliarla sul tronco, una voce lo sorpese: "No, non farlo". Si voltò lui, mi girai anche io.
Era Viola.
Sì, proprio lei. Magnetica nello sguardo e dal volto radioso. Le facemmo largo senza parlare. Avanzò nel silenzio, soffice  sulla neve; s'avvicinò  e tese le braccia verso Cosimo. "Vieni", mormorò con garbo a mio fratello. Che, sorprendendo tutti, abbandonò il suo corpo smagrito e leggero sulle braccia di lei, aggrappandosi al collo.
L'ultima cosa che regalò fu un sorriso dolcissimo.
Poi morì, senza mettere piede a terra.
Qualcuno si commosse. La neve smise di scendere.

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