Il Barone Rampante

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Fino ad allora la pazzia di Cosimo era stata ispirata dalla ribellione e da quei strani principi d’orgoglio che si era preposto.
Dopo l’addio a Viola, fu chiaro che divenne matto.
Io e la mia famiglia vivevamo nel castello nel feudo dei Rondò, ma convinsi mia moglie a trasferirci momentaneamente nella vecchia villa di famiglia. Gli alberi diradavano verso il castello perciò decisi di stare accanto a Cosimo.

Iniziai ad andarlo a trovare ogni giorno. Lui si avvicinava di rado spontaneamente, vuoi perché era diventato solitario e selvaggio di suo, vuoi perché mia moglie era ancora terrorizzata da lui, ero sempre io a portargli cibo e bevande.
Un giorno lo trovai ansante su un ramo di quercia, con gli occhi arrossati e la mano sinistra sul cuore. Si era ammalato. Avevo sempre temuto che sarebbe successo: tra il freddo, le piogge, le infezioni, la malnutrizione c’era da aspettarselo. Era tutto pelle e ossa.
-Richardson- tossì.
-Scendi da questi maledetti rami, Mino. Stai morendo- gli dissi fermamente.
-No. Io non posso morire- e un sorriso sghembo gli si dipinse sul volto, ma  divenne una smorfia di dolore.
Col tempo la sua salute andava peggiorando.
Tenevamo la grande sala da pranzo a finestre sprangate notte e giorno; quando cenavamo ero sicuro che ci stesse guardando e che fosse seduto penzoloni su un ramo seminascosto, a godersi quello di cui non voleva gioire.
Una sera in particolare faceva molto freddo e il fuoco del camino sfigurava davanti alle vetrate aperte: non avevo intenzione di chiuderle.
Captai un tonfo al di fuori. E quando uscii, vidi una scena che non dimenticherò mai: Cosimo, l’uomo che visse sugli alberi, poggiava i piedi a terra. Era sconvolto, meravigliato e quasi ridicolo. Faticava a mantenere una posizione retta, le gambe che erano diventate storte mi fecero impressione, ma quando alzai gli occhi vidi la faccia di un uomo morto.
Divorato dal rimorso. Dalla vergogna. Gli si leggeva in faccia che si sentiva un debole che ha ceduto.
Ma soprattutto, che ha perso la sua casa, la sua vita.
Si voltò lentamente verso l’elce da cui era saltato giù e rimase non so quanto tempo a fissarlo. Carezzò con la mano il ramo più sporgente e, ne fui sicuro, quello fu un addio.
Rimasi tutto il tempo lì inchiodato a guardare, interdetto e in soggezione. Capii che non avrebbe più potuto solcare i rami degli alberi, per una questione di principio, lo stesso che lo aveva tormentato a non toccare terra per tutti quegli anni.
Lo portai nella nostra vecchia cameretta, sotto lo sguardo attonito dei miei familiari. Per tutta la notte non lo lasciai un secondo.
I giorni passavano, e in casa c’eravamo io, mia moglie, i miei figli, i mobili e Cosimo. Cosimo poteva far benissimo parte dei mobili.
Era spento, muto; di rado alzava lo sguardo, per paura di incrociare qualche tratto verdeggiante. Passava la maggior parte del suo tempio a letto; lo feci visitare dai medici migliori, che prescrissero varie porcherie.
-Cosimo, non mollare. Devi essere forte!-
Lui tossì e sputò sangue in un fazzoletto.
Trascuravo la mia famiglia per stare con lui, ma niente ormai era più importante. Voleva che gli leggessi un romanzo di Richardson, ebbene, gli occhi mi divennero rossi per la lettura.
Una mattina non lo trovai. Vagai per il giardino della villa e quello dei D’Ondariva, ma di lui nessuna traccia. Nella villetta dei vicini, che credevo abbandonata, una voce mi apostrofò: -Ehi, Rondò!-
Era Viola. La riconobbi subito. Forse perché avevo sempre desiderato rincontrarla, per far grazia alla rabbia e all’angoscia che mi si albergavano dentro. -Dov’è Cosimo?- chiesi, agro. Per tutta risposta fece un’espressione sbigottita e spaventata, il riflesso del mio viso.
Iniziò a correre. La seguii nel labirinto verde del bosco, fino ad un punto dove il terreno scrosciava in un dirupo. Si avvicinò ad un grosso abete e fece passare le dita sul suo nome e quello di Cosimo intagliati nella corteccia. Mi guardò, pareva divorata dalle fiamme.
-Questo era il nostro albero. Il nostro rifugio. C’eravamo ripromessi di nascondere in questa cavità tutti i nostri segreti- mentre parlava, sfilò dal tronco un foglio di lettera arrotolato.
Avevamo entrambi paura. Poteva contenere quello che non volevamo sapere. Forse sarebbe stato meglio rimanere nell’ignoranza, ma il buon senso e il coraggio ci fece scorrere gli occhi grondanti di lacrime su queste parole:
“Se ora starete leggendo questa lettera, saprete sicuramente chi sono e io so chi probabilmente voi siete. Ho vissuto dai dodici anni sui rami degli alberi; ho combattuto coi pirati, stretto amicizia con Spagnoli esiliati, progettato sistemi idrici, conosciuto famosi briganti, cacciato animali da far invidia a chiunque, creato un’associazione, imparato lingue, storie e libri. Posso dire di essere arrivato al termine della mia vita bizzarra, che ha fatto preoccupare i miei genitori e tormentare mio fratello. Avrò conosciuto tante donne, ma solo la bionda amazzone dell’altalena è quella che ho amato davvero. Avrò imparato tante cose, ma ancora non ho imparato cosa significhi l’amore o la forza dell’arrendersi o cosa volessi davvero dalla mia vita. L’essere sceso dagli alberi mi ha spogliato di una corazza che mi ero costruito, un guscio in cui mi ero rintanato per sfuggire ai problemi sulla terra. Forse ho avuto più problemi lassù, a dire il vero, ma non me ne pento. Era la mia vita. Detto questo, sappiate che io ci sarò sempre tra quei rami contorti, ecco perché vi invito a non cercare le mie spoglie. No. Io non posso morire”

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