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cultura tri fuochiciello

Nicola Fuochiciello, nato a Trinitapoli il 6 febbraio 1935, ha frequentato solo la prima elementare e poi ha subito cominciato a lavorare in campagna per incrementare le magre risorse della famiglia.

Si è sposato, all’età di 22 anni, con Grazia Verzicco, di due anni più giovane, dalla quale ha avuto 8 figli. È riuscito in seguito a studiare presso la scuola serale e negli anni ’70 ha lavorato per il Comune come “camposantaro”, come custode del macello comunale e come messo. È stato un testimone diretto di molti eventi politici e sociali che hanno cambiato il volto del mondo e del paese.

 

Tutta la sua vita è stata legata alla militanza nel Partito Comunista e alle lotte bracciantili che in Capitanata riuscirono a far rinnovare, alla fine degli anni ’60, i contratti collettivi di lavoro e a diffondere la democrazia nelle aziende. È un piacere parlare con lui, perché si ha l’impressione di conoscere dalla viva voce di un protagonista il racconto della dura vita nelle campagne, della dimensione comunitaria di una società più solidale di quella odierna, dei momenti di lotta, dell’emigrazione di massa al Nord e all’estero e delle speranze di riscatto sociale che l’adesione al PCI suscitava nelle famiglie di lavoratori.

 

Forse non si tratta di una persona il cui nome finirà nei libri di Storia, ma il suo racconto ha le vivide tinte della storia di chi, pur non potendo tracciare i destini del mondo, ha la forza di ripercorrere a ritroso la propria vita che mette a disposizione della riflessione e dell’attenzione delle generazioni presenti e future. Ci siamo accordati da tempo per l’intervista che si è svolta alla presenza di altri suoi amici interessati a ricordare con lui i vecchi tempi.

 

Nicolino, hai sempre detto che ti sei iscritto al PCI a 21 anni. Ma cosa faceva un giovane in un partito negli anni ’50?

«Il PCI per me, per noi, è stata una scuola dove chi sapeva di più si metteva a disposizione degli altri, in gran parte analfabeti. Mi sono iscritto alla FGCI, che a Trinitapoli negli anni ’50 aveva anche una sede in largo Di Gennaro, frequentata da centinaia di giovani come me. Non c’era la televisione, a stento sapevamo leggere e scrivere, ma eravamo sempre informati di quanto accadeva nel mondo e nel paese. La signora Pina Calvello, l’assessora comunista alla Pubblica Istruzione di quegli anni, ci faceva lezione e ci diceva ogni giorno che dovevamo imparare a leggere per poterci difendere dai soprusi dei padroni. Vito Leonardo Del Negro, invece, era il compagno che ci spiegava “terra terra” gli articoli della Costituzione e i diritti che avremmo dovuto avere. Inoltre, aveva il compito di scrivere tutte le comunicazioni con un gessetto sulla lavagna, esposta davanti alla sezione, per informare i passanti. Eravamo molto poveri, ma se ci accorgevamo che qualcuno non poteva più prendere pasta e pane a credito nelle botteghe di fiducia, ci facevamo tutti in quattro per aiutare il compagno in difficoltà. I giovani, poi, avevano l’incarico di seguire i consigli comunali e di organizzare le assemblee nei quartieri per far partecipare i cittadini al governo della città. Io mi specializzai nel preparare la colla con farina e soda per appiccicare i manifesti in paese. Insomma, non andavamo a giocare a carte, anche perché non avevamo nulla da giocarci.»

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Quali erano le attività politiche che vi promuovevano “dirigenti”?

«Dirigere non significava “comandare”, ma organizzare bene qualcosa, comportarsi con educazione, essere rispettati dai compagni e dagli avversari e soprattutto aiutare i più deboli a non farsi calpestare. Personalmente, ho diretto per molte votazioni il picchetto inviato dalla sezione comunista per prendere il primo posto sulla scheda elettorale. Era considerato un onore, infatti, essere di guardia al portone del Municipio per l’intera notte che precedeva la data di scadenza della presentazione delle liste. Si doveva essere pronti a consegnare per primi quella del PCI appena si aprivano i battenti per poi poter istruire gli elettori, in particolare gli analfabeti, con la frase “metti una croce su falce e martello, il primo simbolo in alto a sinistra”.»

 

Vuoi chiudere questa intervista con uno dei tuoi più famosi “fattaridd” che racconti agli amici?

«Ho capito, vuoi sapere la storia dei volantini politici della Democrazia Cristiana che circolavano in chiesa in periodo di votazioni. Ebbene, durante le campagne elettorali, la sera del sabato ci organizzavamo in sezione per andare, a due a due, alla messa della domenica in tutte le chiese di Trinitapoli a controllare la diffusione di volantini pubblicitari della DC tra i fedeli. Si sceglievano i compagni più “timbrati” (che erano notoriamente indicati con il timbro di comunisti, ndr) in modo che il prete, nel vederli in prima fila, si astenesse dal far circolare “i santini” del candidato democristiano. Il compianto don Severino era il più rigoroso ed ogni volta che vedeva uno “scomunicato” come me mi chiedeva accigliato con il suo vocione da baritono: “che fai quì, ti sei convertito?” Io gli rispondevo che la notte la Madonna di Loreto in sogno mi aveva detto: “Don Severino ti vuole domani a messa! Mò, dimmi tu, a chi devo sentire?”»

 

ANTONIETTA D’INTRONO

 

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