Lolita

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La gola secca, un spugna ruvida di sabbia, la spalla curva pietrificata come un quarto di luna poggiato ad una parete. Il sonno mi aveva sigillato gli occhi di cispa, un nettare notturno in cui tutte le immagini si erano cristallizzate come lava.

Per tutta la notte i rumori, le voci, i passi, per osmosi erano penetrati nel movimento dei miei sogni: ne erano nate nuove suggestioni, nuovi ectoplasmi della mente, filtri lattiginosi che ricoprivano, con eco tutt’ora persistenti, le primissime ore del mattino.

Il pavimento freddo, sudicio di passi, mi sembrava una zattera flottante: mi aggrappavo con le unghie opache ad un movimento basculante che, quando non mi cullava, mi gettava in uno stato di sconforto da cui lo stomaco ne veniva fuori come un groviglio pulsante di serpi. Lolita mi aveva da poco abbandonato, si era immersa con il peso della sua vita nel fiume della sua grande storia, una dolce e bianchissima Ofelia ricongiunta alla sua natura acerba, una cerva sguinzagliata nel folto del bosco. Il suo ovale, circoscritto nella mia mente, nella mia nuova stanza, veniva ferito come da un’alabarda dai primissimi raggi di sole, freddo, spento, malato, che coraggiosamente s’erano infiltrati dalla finestra sbarrata come aghi attraverso una mussola. Da tempo ormai la mia pancia era un sacco accartocciato, vuoto: il cibo dei piatti, poggiato sul tavolino grigio di metallo, aveva assorbito l’umidità calata sulla sera svegliandosi al mattino, come un mio riflesso nello specchio, completamente cristallizzato, sepolto da una leggera patina giallastra, la stessa che le cartapeste dei santi conquistavano dopo secoli di segregazione e culto all’interno delle loro chiese. Raggelato agognavo ancora sotto le vesti turchesi della mia santa: Lolita, il calzino che segnava il polpaccio, la peluria bionda scoppiata come oro sulle gambe dopo pomeriggi di soporifero sole, s’allungava sinuosa e truce martire della mia dubbia natura dal santino gualcito dei miei vividi ricordi. Avevo cercato riparo dalla mente, per pochi minuti ancora, cercando pace nel fondo spento dei miei occhi chiusi che, riaprendoli, la dottoressa aveva già aperto la porta, ed era li, a riempire della sua fredda presenza la mia stanza. Astante, come un chiodo conficcato in una tavola, con la sua cartellina di cartone pallido tra le mani, la sua biancheria ospedaliera, il tappo della biro incuneato tra l’interno e l’esterno del suo taschino come un’unghia impigliata in un tessuto, a scrutare la mia carne e penetrare la mia psiche. Sul grembiule due iniziali verde bosco, D.L. ed un cognome deliziosamente francofono, Parieu. Leggero l’accento francese galleggiava nel suo inglese elegante, sebbene molto accademico, quando mi chiese se avessi dormito bene ed il perché mi rifiutassi ancora di mangiare. La cura, causa la mia ostinazione a non volermi nutrire, non dava ancora dei frutti maturi: non potevo assumere tutte le medicine prescritte perché i miei valori rimanevano da settimane al di sotto della media prestabilita. Da giorni in apnea. Con un tono partecipato ma fondamentalmente distaccato perché critico, tipico della sua professione, mi chiese della mia Lolita, dei sogni, delle voci.

Da quando quella grossa Packard nera ce l’aveva strappata dalle mani, falciandola lungo il viale nell’ultimo tratto del suo ritorno imprevisto dalla colonia, come una spiga tra le messi, Dolly era diventata per me un’ossessione. Ramsdale e Charlotte, gli olmi e la spiaggia, tutto si era spento risucchiando le nostre vite in un buco nero, lo stesso in cui era sta fagocitata molti anni prima Annabel. I sogni spezzati e le mie illusioni allora ancora rotonde aderivano, una dietro l’altra, come in un’eclissi. Avevo ora un cielo dolorosamente spento in cui cominciare a vagolare, un fondo tetro in cui le mie illusioni frantumate risalivano a galla, in alto, come grossi cumulonembi da un battuto di catrame. Non avrei saputo perdere nuovamente un’altra illusione. Una testa resettata avrebbe trovato una via più facile per ricominciare. La mia pazzia, l’opportunità di lenire il dolore con l’allucinazione, erano frutto di una scelta: in essa si era riversato il marasma dei miei desideri, l’irrealtà delle mie visioni: i viaggi con Lolita, lei sul letto dell’albergo, la fuga di Dolly, il deambulare infinito per le città, Lo incinta, l’abbandono, Quilty, la vendetta.

“Hai più sognato Dolores Haze, signor Humbert? La terapia dovrebbe aver cominciato a liberarla dai suoi fantasmi”.  Non era la prima volta che me lo chiedeva, ma le parole che per giorni si erano arginate ai lati della bocca costruendo una ferma trincea, slegate, miste al sale buono delle lacrime, cominciarono a scorrere in piena al di fuori degli argini solo ora.

Avevo ricominciato ad avere fame. “Portami del pane Dolores, poi smettila di giocare a fare il dottore”.

La fantasia come unica cura. La medicina che tutto ricostruisce. Perché non c’è felicità maggiore di quella che la fantasia sa regalare. Nulla è veramente perfetto come lo è nei propri sogni. Nel mio sogno. Sempre: LO.LI.TA.

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